Con Federico II, il Sacro Romano Impero sposta il suo centro d'interesse dalle selve della Germania al mare della Sicilia: perno intorno al quale aveva girato, e continuava a girare, la ruota delle civiltà mediterranee. L'isola, infatti, forse più che ogni altra terra europea, era stata battuta dal vento capriccioso della storia, subendo, entro i propri confini, l'avvicendarsi irrequieto delle più diverse popolazioni e culture.
I fenici, tra i primi, avevano fatto delle sue coste un approdo sicuro per le loro navi; i greci, in seguito, vi avevano trovato una seconda patria, trasformando, con splendide architetture, quella terra a tre punte in un frontone scolpito per il tempio del mare; poi l'isola era diventata la perla contesa fra cartaginesi e romani; e caduto l'Impero, aveva conosciuto, successivamente, il dominio dei vandali, dei goti e dei bizantini.
Nel IX secolo vi erano giunti gli arabi, portando con sé un ricchissimo bagaglio di cognizioni, un evoluto sistema dì governo, un commercio e un artigianato progrediti, insieme con gli alti minareti e gli eleganti, fiabeschi palazzi. Per più di due secoli, la Sicilia rimase in mano ai berberi musulmani, finché, cambiando padrone ancora una volta, divenne la terra promessa per biondi avventurieri calati dal nord: i normanni. Un altro scontro, e un altro incontro fra due civiltà diversissime. Il frutto che ne nacque fu, per molti aspetti, bello alla vista e dolce al gusto. I normanni non distrassero l'arte e le altre espressioni della cultura musulmana, ma spesso, anzi, mantenendone intatti i valori, le migliorarono. La città di Palermo, ad esempio, per quanto riguardava l'eleganza dei suoi edifici e delle sue architetture, nel XIII secolo doveva presentarsi ancora, più beila di quanto non testimoni questa descrizione redatta negli ultimi anni della dominazione araba: « Città antica ed elegante, splendida ed aggraziata, essa ti appare con aspetto allettante, superba tra le sue piazze e i suoi dintorni, che sono tutti un giardino; grandiosa nelle strade maggiori e nelle minori, affascina dovunque per la rara bellezza del suo aspetto. Stupenda città che ricorda Cordoba per lo stile, con i suoi edifici tutti di pietra intagliata. Un limpido fiume la divide, e acque purissime sgorgano da quattro fontane sulle sue rive. I palazzi del re circondano il centro della città come monili intorno alla gola e al seno di una bella fanciulla, così che il sovrano può sempre, attraverso palazzi e giardini amenissimi, passare da un punto all'altro della capitale » (Amari, Storia dei Musulmani in Sicilia, 1887).
Del clima favorevole instaurato dal regime tollerante dei normanni, si avvantaggiò non solo Palermo, ma la Sicilia tutta. L'isola contava, a quei tempi, circa 1500 fra città e villaggi, ove, soprattutto grazie alla presenza degli arabi, dotti in varie scienze e intraprendenti nel commercio, il livello culturale e sociale medio della popolazione, poteva considerarsi tra i più alti, se non il più alto, dell'Europa. Non si trattava certo del Paradiso terrestre ma, più semplicemente di un mondo che, pregno di valori, aveva trovato nel solido governo dei normanni un momento di grazia e di splendore. Una situazione altrettanto vivace ed evoluta, seppur con modalità diverse, caratterizzava anche l'Italia meridionale e, in genere, tutta la penisola. I comuni, soprattutto quelli padani, già da tempo avevano imboccato la via della indipendenza dal potere centrale dell’imperatore, creando un sistema economico proprio, ormai definitivamente staccato da quello feudale e basato sulla libera iniziativa delle corporazioni cittadine.
L'artigianato e la piccola industria, frutto di una trasformazione in atto, da un'economia agricola a un'economia mercantilistica, richiedevano la presenza nei centri abitati di una manodopera sempre più numerosa, specializzata e a basso costo. Ne fu conseguenza nel XIII secolo un movimento dì liberazione dei servi della gleba, che ottenne un riconoscimento ufficiale in alcune città (ad Assisi, nel 1210; a Bologna, nel 1257; a Firenze, nel 1289). In questi anni, inoltre, anche i centri marinari (Pisa, Genova, Venezia), con la loro crescente potenza economica, cominciarono a assumere un ruolo di primo piano in campo politico e militare (la IV crociata, ad esempio, fu praticamente condotta e determinata, nel suo svolgimento, dai veneziani). Tutta questa vitalità italiana aveva riempito gli occhi e lo spirito del giovane Federico. A diciotto anni, nel 1212, abbandonata la Sicilia e la penisola, si era recato in Germania per riceverne la corona regale. La lunga permanenza nell'Europa centrale (circa nove anni), dovette certamente indurre il sovrano a stabilire un paragone tra la società, il modo di vita e gli interessi della Germania, e quelli sperimentati in gioventù lungo le sponde del Mediterraneo. Il figlio di Costanza non era affatto insensibile ai problemi della cultura né alle tensioni di una politica nuova, per cui, con ogni probabilità, i nobili tedeschi gli apparvero rozzi, incolti, carichi dì titoli e dì storia, ma ben lontani dalla finezza di spirito e dall'«arte politica» imparate in Italia; il sistema feudale, ancora rigidamente applicato in Germania, ormai superato; i signori in continua lotta fra loro, pronti all'intrigo e al tradimento. E Federico senti forse nostalgia della sua giovinezza e della calda Sicilia o, come egli stesso diceva, « della pupilla dei miei occhi ».
In verità, malgrado l'oggettiva diversità di « clima » fra l'Europa centrale e l'Italia, anche nella penisola la situazione era tutt'altro che tranquilla per un imperatore. I liberi comuni portavano avanti idee nuove ma, in fondo, contrarie allo stato imperiale; i grandi feudatari ancora presentì, erano prossimi alla morte ma sussultavano in violenti ritorni di fiamma; in Sicilia, poi, i musulmani, approfittando dell'assenza del sovrano, risollevavano il capo, devastando, da predoni, villaggi e città di un'isola che già doveva sopportare la pesante mano dei nobili tedeschi venuti dal nord al seguito di Enrico VI. Situazione fluida e complessa che era sfuggita anche all'affrettato giudizio dì Ottone di Frisinga, storiografo imperiale: «I plebei, gli artigiani, che presso gli altri popoli vengono considerati come il cancro della vita sociale, in Italia possono raggiungere la dignità di cavalieri e hanno libero accesso alle cariche del Comune. La conseguenza di ciò è che le città italiane per potenza e ricchezza, superano tutte le altre città del mondo ». In realtà, le città erano delle sirene tentatrici perché, col miraggio di una vita più comoda, avevano abilmente trasformato gli antichi servi della gleba nei nuovi strumenti delle oligarchie finanziarie, dominatrici della vita comunale (solo apparentemente democratica) e, sovente, anche della politica internazionale: gli stessi principi e sovrani europei, e persino Federico II dovranno più volte ricorrere ai loro prestiti, concessi dietro il pagamento di onerosi interessi.