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LA SCENA
- tratto dal libro I GRANDI DELLA STORIA edito da Arnoldo Mondadori -
Panorama storico della Sicilia e dell'Italia dopo la caduta dell'Impero Romano
21-09-2011

Con Federico II, il Sacro Romano Im­pero sposta il suo centro d'interesse dal­le selve della Germania al mare della Sicilia: perno intorno al quale aveva girato, e continuava a girare, la ruota delle civiltà mediterranee. L'isola, infatti, forse più che ogni al­tra terra europea, era stata battuta dal vento capriccioso della storia, subendo, entro i propri confini, l'avvicendarsi ir­requieto delle più diverse popolazioni e culture.

I fenici, tra i primi, avevano fatto del­le sue coste un approdo sicuro per le loro navi; i greci, in seguito, vi avevano trovato una seconda patria, trasfor­mando, con splendide architetture, quel­la terra a tre punte in un frontone scol­pito per il tempio del mare; poi l'isola era diventata la perla contesa fra car­taginesi e romani; e caduto l'Impero, aveva conosciuto, successivamente, il dominio dei vandali, dei goti e dei bizantini.

 

                  

Nel IX secolo vi erano giunti gli ara­bi, portando con sé un ricchissimo ba­gaglio di cognizioni, un evoluto siste­ma dì governo, un commercio e un artigianato progrediti, insieme con gli alti minareti e gli eleganti, fiabeschi pa­lazzi. Per più di due secoli, la Sicilia ri­mase in mano ai berberi musulmani, finché, cambiando padrone ancora una volta, divenne la terra promessa per biondi avventurieri calati dal nord: i normanni. Un altro scontro, e un altro incontro fra due civiltà diversissime. Il frutto che ne nacque fu, per molti aspetti, bello alla vista e dolce al gusto. I normanni non distrassero l'arte e le altre espressioni della cultura musulma­na, ma spesso, anzi, mantenendone in­tatti i valori, le migliorarono. La città di Palermo, ad esempio, per quanto riguardava l'eleganza dei suoi edifici e delle sue architetture, nel XIII secolo doveva presentarsi ancora, più beila di quanto non testimoni questa descrizio­ne redatta negli ultimi anni della do­minazione araba: « Città antica ed ele­gante, splendida ed aggraziata, essa ti appare con aspetto allettante, superba tra le sue piazze e i suoi dintorni, che sono tutti un giardino; grandiosa nelle strade maggiori e nelle minori, affasci­na dovunque per la rara bellezza del suo aspetto. Stupenda città che ricorda Cordoba per lo stile, con i suoi edifici tutti di pietra intagliata. Un limpido fiume la divide, e acque purissime sgor­gano da quattro fontane sulle sue ri­ve. I palazzi del re circondano il cen­tro della città come monili intorno alla gola e al seno di una bella fanciulla, così che il sovrano può sempre, attra­verso palazzi e giardini amenissimi, pas­sare da un punto all'altro della capita­le » (Amari, Storia dei Musulmani in Sicilia, 1887).

 

Del clima favorevole instaurato dal re­gime tollerante dei normanni, si avvan­taggiò non solo Palermo, ma la Sici­lia tutta. L'isola contava, a quei tem­pi, circa 1500 fra città e villaggi, ove, soprattutto grazie alla presenza degli arabi, dotti in varie scienze e intra­prendenti nel commercio, il livello cul­turale e sociale medio della popolazio­ne, poteva considerarsi tra i più alti, se non il più alto, dell'Europa. Non si trattava certo del Paradiso ter­restre ma, più semplicemente di un mondo che, pregno di valori, aveva trovato nel solido governo dei norman­ni un momento di grazia e di splendore. Una situazione altrettanto vivace ed evoluta, seppur con modalità diverse, caratterizzava anche l'Italia meridiona­le e, in genere, tutta la penisola. I co­muni, soprattutto quelli padani, già da tempo avevano imboccato la via della indipendenza dal potere centrale dell’imperatore, creando un sistema econo­mico proprio, ormai definitivamente staccato da quello feudale e basato sul­la libera iniziativa delle corporazioni cittadine.

 

L'artigianato e la piccola industria, frut­to di una trasformazione in atto, da un'economia agricola a un'economia mercantilistica, richiedevano la presen­za nei centri abitati di una manodopera sempre più numerosa, specializzata e a basso costo. Ne fu conseguenza nel XIII secolo un movimento dì liberazio­ne dei servi della gleba, che ottenne un riconoscimento ufficiale in alcune città (ad Assisi, nel 1210; a Bologna, nel 1257; a Firenze, nel 1289). In questi anni, inoltre, anche i centri marinari (Pisa, Genova, Venezia), con la loro crescente potenza economica, comin­ciarono a assumere un ruolo di primo piano in campo politico e militare (la IV crociata, ad esempio, fu pratica­mente condotta e determinata, nel suo svolgimento, dai veneziani). Tutta questa vitalità italiana aveva riempito gli occhi e lo spirito del gio­vane Federico. A diciotto anni, nel 1212, abbandonata la Sicilia e la pe­nisola, si era recato in Germania per riceverne la corona regale. La lunga permanenza nell'Europa cen­trale (circa nove anni), dovette certa­mente indurre il sovrano a stabilire un paragone tra la società, il modo di vita e gli interessi della Germania, e quelli sperimentati in gioventù lungo le spon­de del Mediterraneo. Il figlio di Co­stanza non era affatto insensibile ai problemi della cultura né alle tensioni di una politica nuova, per cui, con ogni probabilità, i nobili tedeschi gli appar­vero rozzi, incolti, carichi dì titoli e dì storia, ma ben lontani dalla finezza di spirito e dall'«arte politica» imparate in Italia; il sistema feudale, ancora ri­gidamente applicato in Germania, ormai superato; i signori in continua lot­ta fra loro, pronti all'intrigo e al tra­dimento. E Federico senti forse nostalgia della sua giovinezza e della calda Sicilia o, come egli stesso diceva, « della pupilla dei miei occhi ».

 

 

In verità, malgrado l'oggettiva diversi­tà di « clima » fra l'Europa centrale e l'Italia, anche nella penisola la situa­zione era tutt'altro che tranquilla per un imperatore. I liberi comuni porta­vano avanti idee nuove ma, in fondo, contrarie allo stato imperiale; i grandi feudatari ancora presentì, erano pros­simi alla morte ma sussultavano in vio­lenti ritorni di fiamma; in Sicilia, poi, i musulmani, approfittando dell'assenza del sovrano, risollevavano il capo, de­vastando, da predoni, villaggi e città di un'isola che già doveva sopportare la pesante mano dei nobili tedeschi venuti dal nord al seguito di Enrico VI. Situazione fluida e complessa che era sfuggita anche all'affrettato giudizio dì Ottone di Frisinga, storiografo im­periale: «I plebei, gli artigiani, che presso gli altri popoli vengono conside­rati come il cancro della vita sociale, in Italia possono raggiungere la dignità di cavalieri e hanno libero accesso alle cariche del Comune. La conseguenza di ciò è che le città italiane per poten­za e ricchezza, superano tutte le altre città del mondo ». In realtà, le città erano delle sirene tentatrici perché, col miraggio di una vita più comoda, ave­vano abilmente trasformato gli antichi servi della gleba nei nuovi strumenti delle oligarchie finanziarie, dominatrici della vita comunale (solo apparente­mente democratica) e, sovente, anche della politica internazionale: gli stessi principi e sovrani europei, e persino Federico II dovranno più volte ricor­rere ai loro prestiti, concessi dietro il pagamento di onerosi interessi.





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